Mi chiamano Garrincha

Una produzione Fondazione Aida

di Fabio Mangolini adattamento del romanzo "Lettera a mio figlio sul calcio" di  Darwin Pastorin
da un'idea di Maria Grazia Capulli
con Lorenzo Bassotto e Jana Karsaiova
voce off di Bruno Pizzul
tecnico audio e luci Matteo Pozzobon
regia Fabio Mangolini e Lorenzo Bassotto

Garrincha è zoppo, per questo non ha mai potuto giocare a calcio, la sua passione, il grande sogno della sua vita. E’ nato a Sao Paulo il giorno in cui Garrincha, quello vero, il campione capace di cavalcare le stelle e di commuoversi per un uccellino in gabbia, esordiva nella nazionale verde-oro. Un predestinato, insomma, peccato solo per quell’essere storpio d’una gamba, la sinistra, quell’incedere che ne fa un essere degno di tenerezza. Per lui il mondo è rotondo ed è coperto di pelle bianca e nera, come un pallone di calcio e il pallone è culla, casa, fiume, stella, abisso, vertigine. Ha viaggiato per le strade del mondo dietro al calcio, ha conosciuto, amato, pianto, rimpianto, scoperto, allontanato. Ha conosciuto grandi calciatori e bambini con i piedi nudi che correvano dietro a un palla fatta di stracci, ha visto persone gioire, altre piangere disperate, ha raccolto le loro storie, le ha stampate nel cuore e adesso le racconta. Pelé, Maradona, Gigi Meroni, Gaetano Scirea, Gigi Riva, Pietro Anastasi… Il calcio è imprevedibile come il volo di un aquilone. Garrincha ha un sogno, il suo sogno. Tirare un calcio di rigore e segnare ma non un calcio di rigore qualsiasi: l’ultimo rigore nella finale dei Campionati del mondo, quello da cui dipende tutto ma tutto davvero. Muove le gambe, Garrincha, sul posto, corre sul posto, veloce, come a correre su una sola zolla di terra tutto quello che non ha potuto correre in una vita intera. Gli occhi negli occhi del portiere. Dietro il portiere la rete, molle come un ventre, pronta ad accogliere la palla. Garrincha si muove, tre passi, di corsa, il vento nelle orecchie, negli occhi, nei capelli, attorno al collo, fra le dita, nei polmoni, giù, boccate di vento, un boato d’uragano nell’aria ferma dello stadio ammutolito. Il piede sinistro che tocca la sfera. Poi solo un urlo. Goal!

Fabio Mangolini

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